Il caso Faneto e la responsabilità della musica

L’11 ottobre 2025 il mondo della musica italiana è stato scosso da un caso che ha rapidamente acceso il dibattito pubblico. Un giovane artista della scena trap, Faneto, è stato accusato di violenze e minacce da parte di una ragazza che afferma di essere la sua ex compagna. Le immagini, i video e i messaggi diffusi sui social hanno avuto un impatto dirompente, sollevando una serie di domande che vanno oltre la vicenda giudiziaria: fino a che punto la musica e chi la produce devono interrogarsi sul linguaggio e sui modelli che propone?
Le accuse e l’indagine in corso
Secondo quanto emerso dai canali social della presunta vittima, la giovane avrebbe denunciato il rapper mesi fa, ma solo di recente ha deciso di rendere pubbliche le prove delle presunte violenze. Le sue storie mostrano lividi, conversazioni e registrazioni vocali in cui emergono minacce esplicite.
Le autorità avrebbero già avviato un’indagine, tuttora in corso. È fondamentale ricordare che, fino a eventuali decisioni giudiziarie, si tratta di accuse non ancora accertate. Tuttavia, il materiale condiviso ha avuto un’eco tale da rendere inevitabile una riflessione più ampia sul contesto in cui tutto questo si inserisce.
L’impatto sull’ambiente musicale
Nonostante il clamore mediatico, l’artista ha continuato le sue attività pubbliche nelle ore successive alla diffusione delle accuse, mentre il suo nome iniziava a sparire dai profili di colleghi e collaboratori. La casa discografica con cui collabora ha poi comunicato la propria presa di distanza, destinando i proventi legati al suo catalogo a enti impegnati contro la violenza di genere.
Un gesto simbolico, ma importante, perché in troppi casi l’industria musicale tende a rimanere in silenzio finché la polemica non esplode.
Il problema non è (solo) il rap
È facile – e forse troppo comodo – puntare il dito contro un genere musicale. Ma il problema non è il rap, né la trap in sé. Il problema è il modo in cui certi linguaggi vengono sdoganati come parte del “personaggio”, come se la violenza verbale o sessista fosse una forma di autenticità artistica.
La verità è che molte delle nuove generazioni si formano proprio su questi testi, li interiorizzano, li imitano. Quando il ritornello più noto di un artista diventa un insulto verso le donne, non si tratta più solo di provocazione: è una narrazione tossica che rischia di normalizzare l’abuso.
Cosa cercano davvero i ragazzi
Negli incontri scolastici o nei laboratori musicali è facile notare un trend: la maggior parte dei giovani cita il rap come genere preferito. Nulla di male in questo, ma quando si chiede loro cosa ammirino degli artisti, le risposte spesso convergono su due concetti: soldi e successo.
Non è raro sentire frasi come “voglio diventare come loro per avere soldi e donne”.
E qui si apre una falla enorme. Perché se l’immaginario che offriamo ai ragazzi è fatto solo di ricchezza ostentata e dominio sull’altro, stiamo rinunciando a un’occasione educativa che la musica, più di qualsiasi altra forma artistica, potrebbe offrire.
L’etica dell’industria e il ruolo della stampa
Non solo gli artisti, ma anche chi lavora nella filiera musicale – discografici, uffici stampa, promoter, giornalisti – ha una responsabilità precisa: quella di scegliere cosa promuovere e cosa no.
Non tutto ciò che “funziona” sui social merita spazio e attenzione. A volte, dietro un linguaggio che sembra solo provocatorio, si nasconde un messaggio pericoloso che normalizza la violenza o l’umiliazione.
Serve più coraggio nel dire “no”, anche quando un brano è destinato a fare numeri. Perché la libertà di espressione non può essere una scusa per veicolare disprezzo o sopraffazione.
Una riflessione necessaria
Questo caso, indipendentemente dagli esiti giudiziari, ci obbliga a guardare in faccia una realtà scomoda: troppo spesso la musica popolare italiana, e in particolare la scena urban, riflette e amplifica un maschilismo culturale ancora radicato.
Ma allo stesso tempo, non possiamo dimenticare che il rap è anche il genere che più di tutti ha dato voce a chi non ne aveva una, che ha raccontato marginalità, disagio, rivalsa.
Proprio per questo, chi ne fa parte dovrebbe essere il primo a difenderne il valore, prendendo le distanze da chi lo utilizza per giustificare la violenza.
Da che parte stare
La musica non può cambiare il mondo da sola, ma può contribuire a renderlo migliore o peggiore.
E chi lavora in questo settore ha il dovere di scegliere: da che parte stare.
Perché non basta indignarsi quando la violenza diventa virale. Il momento giusto per agire è sempre prima.
Come ricorda Federico Galli, direttore di Frequenza Italiana:
“Raccontare la musica significa anche assumersi la responsabilità di ciò che essa comunica. Tacere o normalizzare è una forma di complicità. La cultura popolare ha un peso enorme nell’immaginario collettivo: usarla in modo consapevole è un dovere, non un’opzione.”