Certe notti non finiscono mai: il ritorno potente di Ligabue al popolo del rock

Ligabue incendia Campovolo: una notte di musica, memoria e speranza lunga trent’anni

Reggio Emilia, 21 giugno 2025 – Era una notte attesa da mesi, ma forse anche da trent’anni. Perché il concerto-evento andato in scena a Campovolo non è stato soltanto una festa: è stato un viaggio dentro il cuore di una generazione, e un richiamo potente per quelle che verranno. Luciano Ligabue ha celebrato Buon Compleanno Elvis e la sua canzone simbolo, Certe Notti, con un live che ha fatto vibrare l’anima e la coscienza di oltre centomila persone, accorse da tutta Italia e non solo.

Non una semplice scaletta, non un greatest hits, ma un racconto emotivo in quattro atti, che ha abbracciato la nostalgia, l’urgenza del presente e la voglia di restare vivi, insieme. Sotto il cielo di Reggio Emilia, tra scintille rock e silenzi carichi di significato, il Liga ha dimostrato di essere ancora il cantastorie capace di unire l’Italia con tre accordi e una verità.


Una notte che profuma di ricordi

L’apertura è un brivido lungo la schiena. Sul palco compare Ligabue, accolto da un’ovazione commossa, e le prime note di Certe Notti spezzano l’aria. Campovolo si trasforma in una gigantesca macchina del tempo: luci al neon, proiezioni di immagini anni ’90, dettagli di una vita vissuta su provinciali e sogni irrisolti. È come se ognuno, in quel momento, potesse vedere la propria giovinezza riflessa sul megaschermo, fra motorini, birre d’estate e amori eterni per una settimana.

La voce di Ligabue è calda, piena, e le parole sembrano valere di più con il peso degli anni. La prima parte dello show scorre tra le note di I ragazzi sono in giro, Quella che non sei, La metà della mela, con il pubblico che canta ogni strofa, ogni respiro. Si ride, si balla, ci si guarda negli occhi: non è solo un concerto, è una grande riunione di famiglia allargata.


Quando il rock incontra la coscienza

Ma la festa, per Ligabue, non può essere disgiunta dalla realtà. All’improvviso, le luci cambiano, si fanno fredde, i visual sullo schermo mostrano dati e immagini che raccontano una verità difficile da ignorare. Inizia Cosa vuoi che sia, ma stavolta le parole sembrano accusare, svegliare.

Il rocker emiliano interrompe la narrazione del passato per piantare nel cuore del presente un urlo necessario. Parla del cambiamento climatico, di quanto ci stia sfuggendo tutto di mano, con la Terra che brucia mentre noi stiamo a guardare. Le immagini di ghiacciai che scompaiono, città sommerse, incendi e terremoti, non sono solo cornice visiva: sono una ferita aperta che si insinua fra le note.

Il pubblico ascolta in silenzio. Applaude, certo, ma non è l’applauso dell’euforia: è quello del riconoscimento, della complicità, della responsabilità. Il rock si fa specchio, e la musica diventa una voce che chiede di non essere ignorata.

Donne, potere e poesia: uno sguardo profondo sull’umanità

Cambia ancora il tono, senza mai perdere intensità. Con Le donne lo sanno, il palco si riempie di volti femminili: attrici, attiviste, scienziate, madri, cantanti, volti noti e sconosciuti, tutte unite da una forza che sembra emergere dalla musica stessa. È un omaggio dolce e potente a ciò che spesso resta in secondo piano ma regge il mondo.

Subito dopo, il passaggio è brusco e geniale: Happy Hour, il brano satirico per eccellenza, esplode con un montaggio visionario in cui potenti della Terra brindano nello spazio, sospesi nel vuoto tra lusso e cinismo. Tra loro, Elon Musk, Jeff Bezos, Putin. E lì, nel mezzo, l’immagine di un Presidente – forse reale, forse simbolico – che osserva tutto con uno sguardo pieno di dubbio e paura.

È come se Ligabue volesse dirci che il potere oggi si muove fuori dalla nostra portata, in un mondo a parte, mentre quaggiù restano i problemi veri, quelli che nessun brindisi può cancellare.


Radici forti, cuore aperto

Ma Ligabue sa anche quando è il momento di riportare tutti a casa. Così, nella terza parte dello show, il palco si spoglia di effetti speciali e si riempie di verità nude. Figlio di un cane, Bambolina e barracuda, Non è tempo per noi arrivano uno dopo l’altro come carezze e pugni, cantate a gran voce da una platea che si rispecchia in ogni nota.

Poi, il momento che nessuno si aspettava: Buon Compleanno Elvis diventa una vera e propria parata rock’n’roll. Ligabue scende tra la gente su una Cadillac, saluta, si lascia toccare, si ferma. È un istante di rottura, quasi cinematografico, tra Johnny Cash e Fellini. La notte sembra non finire mai.

Ed è allora che arriva la voce inconfondibile di Roberto Benigni. Sullo schermo, il suo volto recita parole piene di amore e rabbia contro le guerre. Dietro, le immagini dei conflitti che ancora devastano il mondo, mentre scorrono i numeri delle vittime. Un monologo che taglia il respiro, seguito da Il mio nome è mai più, cantato da Ligabue con l’energia dolente di chi sa che la musica non basta, ma può ancora resistere.


Certe Notti, la chiusura perfetta

Quando tutto sembra aver detto tutto, Ligabue rilancia. Leggero si fa respiro collettivo, Viva! diventa grido, A che ora è la fine del mondo? scuote e diverte con una visione apocalittica che non rinuncia all’ironia. Poi Tra palco e realtà, con un visual in rosso vivo, tra Lambrusco e sangue, sudore e sorrisi, è la dichiarazione d’identità più forte del rocker di Correggio.

I fuochi d’artificio esplodono sopra Campovolo. La gente piange, canta, ride. Il tempo sembra dilatarsi. E mentre si spegne ogni luce, Ligabue torna là dove tutto era iniziato. Parte di nuovo Certe Notti, e stavolta la canta con il pubblico. È un duetto tra palco e prato, tra uomo e gente, tra ieri e domani. Un cerchio che si chiude, e un altro che si apre.


Una notte che resta addosso

“Questa è la nostra storia, e continua solo se ci crediamo insieme.” Parole semplici, quelle di Ligabue, ma cariche di tutta la sua poetica fatta di asfalto, sogni, rabbia e amore. La notte di certe notti non è stata solo un grande concerto. È stata un rito collettivo, un grido di appartenenza, una presa di coscienza. Ha lasciato dentro chi c’era – e anche chi non c’era – una strana malinconia felice, come quando finisce qualcosa che speravi non finisse mai.

Perché certe notti ti entrano sotto la pelle. E non se ne vanno più.